i sikani di Kamikos

Gli anelli a sigillo di Sant’Angelo

Dalla metà del ‘700 a oggi una notevole quantità di reperti archeologici è stata rinvenuta nel territorio di Sant’Angelo Muxaro. Scavi clandestini sono stati compiuti fin d’allora. Su questa illecita consuetudine scriveva, come già rilevato, nel 1932, l’archeologo Paolo Orsi: “I villani in passato, spinti dalla miseria e dalla speranza di fantastici tesori, ne avevano tumultuariamente frugato il maggior numero, traendone masse di vasellami e pochissimi bronzi, che essi barattavano sul mercato di Girgenti per poche lire, fin che il vecchio barone Giudice, collezionista fanatico e poco illuminato, e soventi volte truffato, comperò una quantità di siffatto materiale, che poi dovette, per intervento del prof. Gabrici, equamente dividere col Museo Nazionale di Palermo”.

 Molti contadini, ancora un settantennio fa, possedevano a casa qualcosa di antico, che non sapevano la loro destinazione. Ricordo che nella mia fanciullezza, un mio stretto parente mi diceva di aver trovato uno schiaccianoci di bronzo, era forse una fibula di bronzo che pensava fosse schiaccianoci.  Allora venivano spesso nel paese di Sant’Angelo Muro ambulanti che al grido di: ” Oru vecchiu ca m’accattu”, (oro vecchio che mi compro) si appropriavano d’inestimabili reperti. C’è da supporre, a ragion veduta, che nelle abitazioni di questo comune vi siano oggi, celati all’occhio della legge, reperti antichi.

Assieme ai vasi si vendevano oggetti d’oro che erano fusi per essere non più riconoscibili. Sarà stata questa la fine delle patere scomparse e di molti altri oggetti. Questi, più che prodotti locali, erano ritenuti introdotti da merciai ambulanti greci. Riteniamo, però, data la quantità dei reperti aurei conosciuti di circa 850 grammi, trascurando l'ipotetico quantitativo perduto, la presenza di una possibile oreficeria nel territorio di Sant’Angelo Muxaro.

Fra gli ori riesumati dalle tombe di Sant’Angelo meritano menzione gli anelli a sigillo e le pàtere.

  1. Gli anelli a sigillo

Prima dell’invenzione della serratura, i sigilli (1) o le gemme incise erano modi per difendere la proprietà o di ostacolarne l’accesso. I disegni incisi sui sigilli aggiungevano alla minaccia di essere scoperti il deterrente della magia.

 Gli antichi sigilli erano a timbro o a bottone, cilindrici, molto diffusi in Mesopotania, oppure a mandorla (amigdaloidi). Questi ultimi cominciarono a essere prodotti verso la fine del Minoico Medio (dal 1800 al 1550 come fissò Evans) e furono in voga fino all’epoca della catastrofe di Tera nel 1450 a. C.  (2).  Da questa forma di sigillo derivò l’anello a sigillo con castone ovale che si diffuse in tutto il Minoico Tardo (1500 / 1100 a.C.) secondo Sinclair Hood.  Fu largamente adottato in Oriente e specialmente a Cipro.  Tale forma rimane in uso in età submicenea e rivivrà nel VII secolo a.C. Alla fine del Minoico Medio si produssero sigilli con iscrizioni in scrittura geroglifica cretese e scrittura ieratica. Per scrivere si usava l’inchiostro o la vernice. In Egitto i sigilli assunsero forme di scarabei, mentre nella Valle dell’Indo si crearono sigilli a stampo in steatite.

1)Nota – Sigillo – Piccolo segno--Dal latino sigillum diminutivo di signum .

(2) L’evento fu dovuto a una serie di scosse telluriche violente che culminarono con l’esplosione del vulcano Enkelados che vomitò fiamme e lava incandescente. Gran parte dell’isola di Tera si spaccò e sprofondo nel mare. Il maremoto si calcolò che raggiunse il 200 metri e distrusse le città costiere di Creta. La pomice incandescente bruciò ciò che era rimasto non solo di Cnosso ma di Malia, Gournia, Nirou,Psyra.

L’uso del sigillo fu così diffuso, che a Roma e in altre città del Mediterraneo sorsero scuole di abilissimi incisori, alcuni dei quali per incidere usavano il diamante. Nel Medioevo il sigillo fu usato per l’autentica di documenti  istituzionali da parte di magistrati e pubblici ufficiali. Per la loro realizzazione nell’antichità si adoperava il legno, l’oro, l’argento o il bronzo e anche la pietra scelta fra quelle più tenere come la steatite o il serpentino. In un secondo tempo, quando l’incisore ebbe l’aiuto del trapano e della ruota tagliente, si adoperarono materiali più duri quali l’ametista, il cristallo di rocca, il diaspro rosso, l’ematite nera e l’ossidiana.  Si usò la corniola, l’agata striata, il lapislazzuli. Si ottenevano, pure, dall’avorio, dall’osso, dalle corna di cervo e dai metalli preziosi come l’oro, l’argento e il bronzo. Talvolta erano realizzati in terracotta e in vetro.

I sigilli erano impressi sulla cera o sull’argilla, rendendo inviolabile l’oggetto contrassegnato. Anticamente avevano forma di animali o uccelli.  In essi  erano incise scene di culto e di battaglie, figure umane e divine, raffigurazioni di animali come leoni, tori, cinghiali, sfinge, grifoni immaginari senza escludere altri animali. I sigilli lentiformi o di forma adatta si portavano legati al polso come orologi  o,  se piccoli di diametro, appesi al collo con un laccio.siggilli lentiformi

 Esempi di forme di sigilli: a timbro, a disco, cilindrico, a mandorla (amigdaloidi), a castone ovale e a forma di uccello. I sigilli cretesi e micenei normalmente furono realizzati con castone separato dal cerchio e poi saldati. Nell’antico Egitto ebbero la forma di scarabei (insetti dal corpo tozzo e grosso).

Gli anelli a sigillo rinvenuti a Sant’Angelo Muxaro sono tre. Raffigurano una vacca che allatta il vitellino, un lupo e un grifo. I primi due anelli sono il frutto della laboriosità di Paolo Orsi. La frenetica attività archeologica di questo grande archeologo si sposta dalla Sicilia Orientale e dal Sud d’Italia alla Sicilia occidentale, dando corso, nel 1931, ai lavori di scavo dei sepolcri del Colle Sant’ Angelo.

Un fortunato caso porta l’archeologo, in possesso di un grosso e pesantissimo anello di 45,9 grammi e con un castone di mm 36, recuperato nell’area di Monte Castello. Pietro Griffo ci informa:” Nei primi mesi del 1927, nel terreno pianeggiante tra q. 411 e la Montagna del Castello, dove l’Orsi segnalò un gruppo di sepolcri, fu rinvenuto un pesantissimo anello d’oro…”. Bernabò Brea, precisa che esso fu rinvenuto “da tombe a grotticella artificiale (IX-V sec. a.C.) “. Un contadino, Angelo Militello, nel 1927, si dice che abbia trovato casualmente l’anello.

L’anello raffigura, con un intaglio profondo, una vacca che allatta un vitellino.  Un “soggetto, scrive l’Orsi, pieno di reminescenze, sia pur lontane, assieme alla forma dell’anello, submicenee (…). Giudicato da molti un falso, e dalla più alta competenza in fatto di oreficerie antiche, (… ) Io credetti opportuno assicurarlo, dopo minuziose inchieste, alle collezioni dello Stato”.

Ernesto De Miro notava, in merito, la larga cronologia della definizione dell’Orsi. Terminava, con l’affermare che l’arte, definita dall’Orsi submicenea, era imprecisa, riferendosi a un periodo ascrivibile a una “sia pur lontana filiazione cretese-micenea” e, riprendendo le conclusioni alle quali era pervenuto, nel 1956, Giovanni Becatti, nella sua opera “Oreficerie antiche, dalle minoiche alle barbariche”, riteneva che facesse parte dell’arte sicana del VI-V secolo a.C. L’archeologo si discosta pure da Biagio Pace che, esaminando gli anelli conservati al museo P. Orsi di Siracusa e la pàtera d’oro al Britsh Museum, li attribuiva al mondo fenicio-cipriota del VII secolo a.C.

Lo stesso, inoltre, soffermandosi sull’analisi dell’anello, afferma che questa rappresentazione richiama la tradizione di Ellanico, secondo il quale una “vacca si era staccata dalla mandria rapinata e l’eroe l’aveva inseguita sino alla Sicilia”.

Anello sigillo .Museo Arch. Siracusa

 

 

 

Vacca che allatta il vitellino- (Particolare) Museo Arch. Reg.“P. Orsi” di Siracusa. (In esposizione temporanea al MuSam, museo archeologico di Sant’Angelo Muxaro).(Foto V.Conte)

Il soggetto della vacca che allatta il suo vitellino, però, tipico del mondo agro-pastorale, era comune presso molti popoli antichi.   In merito, afferma Lucia Vagnetti, “La raffigurazione della vacca che allatta si connette ad uno schema iconografico che ebbe grande fortuna nel mondo antico”.  (…) E’ vivo e vitale nell’Egitto del III millennio e gode di un particolare favore nell’ambito delle civiltà orientali del II millennio”.  L’iconografia, presente nel mondo cretese-miceneo, aveva molta popolarità. Essa si ricollega alla tradizione micenea e sub micenea, che si vuole operante nella Sicilia del I millennio. Rappresentazioni di carattere pastorale con raffigurazioni di vacche allattanti si possono ammirare in una placca in faïance nei magazzini del tempio del palazzo di Cnosso o nel santuario punico presso Ras Shamra ben lontane dal mito di Eracle e Gerione.

Santuario punico presso Ras Shamra (antica Ugarit città della Siria). Pregevole scultura in avorio di Mucca con vitellino del IX secolo a.C.   In essa finezza di realizzazione e semplicità naturalista si fondono in un’artistica realizzazione.

                                                                          

Placca in faÏence (1) con vacca che allatta il suo vitellino. Dai magazzini del tempio del palazzo di Cnosso.

Il De Miro, proseguendo la sua analisi, evidenzia, per il pesantissimo anello che reca nel castone intagliato la vacca che allatta il vitellino, la stessa ” greve pesantezza della massa plastica dei tori nella nostra tazza” e porta a conferma della sua affermazione le forme tozze e massicce del torello rinvenuto nella necropoli santangelese. L’opinione di sì valente archeologo, pur condivisa per la tazza del Britsh Museum, ci lascia dubbiosi per l’analisi delle forme che presenta l’anello, definita pesante e statica.

Gli anelli riesumati dalle tombe santangelesi sono realizzati con una tecnica che rivela una lavorazione in negativo, resa con profonda incisione, così predisposti per incidere il sigillo.

Gli anelli, sia quello che rappresenta una vacca che allatta il suo vitellino, sia l’altro che ritrae il lupo, come anche l’iconografia del grifo, pur non presentando quell’armonia di forme, come suggerirebbe una realizzazione greca, esprimono una certa agilità e direi vivacità. Il movimento delle masse si riscontra nelle forme che ritraggono l’atteggiamento del vitellino con il corpo flesso all’indietro per poi spingersi verso i capezzoli, come tipicamente fanno i piccoli di animali che si allattano. La stessa raffigurazione del lupo, sviluppata con contorni netti, che la fa sembrare come applicata sul fondo, è delineata da una solida massa anatomica nella parte frontale del corpo che si assottiglia nel ventre, imprimendo un’agilità

(1)Nota- FaÏence.  Ceramica smaltata o verniciata. Prende nome dalla città francese Faenza nota, nel Medioevo, per le sue ceramiche. Fu prodotta in Egitto dall’inizio del Predinastico, periodo contemporaneo del Neolitico cretese. I Cretesi l’appresero all’inizio del Minoico Medio ( 2000 a.C. circa) o precedentemente. Era usata per grani di collane o per pendenti, per statuette e vasi. per placche  e vasi.

e vivacità al soggetto. Il lupo con le fauci spalancate, con gli artigli pronti a colpire e con la coda flessa in alto, sembra che inceda guardingo e con passo circospetto.  Il pelo del collo e le tre costole rimarcate danno vivacità e realismo. Valori questi ultimi che non riscontriamo nella goffa schematizzazione del Grifo, sicché si suppone che gli ori di Sant’Angelo siano della stessa bottega ma da attribuire a mani diverse.

 Il rinvenimento dell’altro prezioso anello sigillo che rappresenta il lupo è opera dell’Orsi. La fortunata riesumazione si ha durante gli scavi delle tombe di Colle Sant’Angelo, fatti nel 1931.

Durante questi lavori l’archeologo riviene la più ricca di queste tombe: il Sepolcro VI, principe Ruffo della Scaletta, così identificato in omaggio al generoso mecenate della campagna di scavo. Di esso riportiamo in sintesi il ritrovamento.  Il sepolcro “era, scrisse l’Orsi, una monocella a cupola con serraglia rovesciata in cavo (…) Una frana ne mascherò la bocca e fu la sua salvezza. La porta trapezoidale era sbarrata da un chiusino monolitico di gesso compatto e sottile (…). Nell’interno per fortuna, la terra di sottile strato di gesso lucente trasparente formatosi cogli stillicidi dei secoli; attraverso questa coltre vetrificata s’intravvedono le briciole di due scheletri decomposti messi uno a rincalzo dell’altro, e di essi gradinetto di piccoli massi nel senso della lunghezza, letto coperto da una coltre funebre formata da un sottile strato di gesso lucente trasparente formatosi cogli stillicidi dei secoli; attraverso questa coltre vetrificata s’intravvedono le briciole di due scheletri decomposti messi uno a rincalzo dell’altro, e di essi uno adagiato sul capezzale roccioso, anzi più esattamente sugli avanzi decomposti di un ύποχεфάλαιον (capezzale N.d.A.) decorato di occhi di dado e di punte di cuspidi, di cui un solo frammento pervenimmo a salvare. Ma c’era di meglio, alla mano sinistra di uno dei morti, o rispettivamente alla destra dell’altro, s’intravvedeva sotto un grumo cristallino il grosso e pesante (gr. 54.8 e con un castone di 35 mm.-N.d.A.) anello submiceneo con la rappresentazione a intaglio profondo, condotto in maniera molto realistica, di un lupo con i suoi unghioni, con tracce di rosso (forse la cera dei suggelli) nel cavo: donde ci piacque assegnare questo insigne sepolcro al capo della tribù del lupo”. L’anello a sigillo dissipò i dubbi che l’Orsi aveva dell’altro comprato.

Gli anelli sigillo rinvenuti a Sant’Angelo si differenziano dagli altri quattro trovati nelle necropoli affini di Caltagirone, Pantalica e Desueri, sia per l’artistica decorazione, sia per il peso. Questi, afferma Biagio Pace, “sono delle sottili brattee “di figura” con castone a losanga e modesta decorazione punta con tenia multipla, nessuno di essi raggiunge il peso di un grammo”. Un riscontro plausibile gli anelli santangelesi  

Anello sigillo con rappresentazione di lupo gradiente, rinvenuto da P.Orsi nel sepolcro VI.Peso gr.54,8                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                      In Musam esposizione temporanea. Da Museo Archeologico Regionale di Siracusa. (FotoV.Conte)

Particolare dell’anello. (Foto V.Conte)

Capezzale ligneo rinvenuto con l’anello all’interno del sepolcro VI. Museo Arch. Reg. Di Agrigento

possono trovarlo con i maggiori gioielli del mondo minoico-miceneo. Essi fanno parte di quegli ori che l’Orsi definì modestissimi “prodotti locali” o piuttosto monili introdotti da merciai greci. L’archeologo identifica, inoltre, i due insigni anelli principeschi come opere confezionate in “qualche città greca del Sud-Ovest o d’altronde.” probabilmente per commissione, e ciò in riguardo alla figurazione simbolica”. L’arte, l’archeologo afferma, è submicenea e la decorazione attribuibile all’VIII –VII secolo a. C.

I due anelli sia quello con la vacca che allatta, sia quello con il lupo furono accomunati da Biagio Pace alla pàtera con il titolo “Ori della regia sicana di Camico”. Ritenuti autentici, furono considerati opera della stessa bottega. Qualche decennio dopo J. Boardman associava a questi reperti un altro anello custodito nel Museo Archeologico di Firenze. Si tratta di un anello-sigillo d’oro massiccio dal peso di gr.22,87. In esso è raffigurato un grifo gradiente verso destra e retrospicente. La provenienza è sconosciuta. “Il mostro, scrive Lucia Vagnetti, ha corpo snello e scattante, testa piccola sormontata da un lungo pennacchio ricadente e arricciolato all’estremità, becco lungo di rapace (….) l’ala è trattata a solchi paralleli e tre cordoni a metà del corpo indicano sommariamente il rilievo delle costole”. Le masse anatomiche del mostro evidenziano un’eccessiva sproporzione, denotando una mancanza di armonia fra il tronco del corpo e le zampe. I lineamenti marcati e la disarmonia di forme richiamano i sigilli cretesi.

 L’anello è stato definito autentico, poiché conservato assieme ad altre oreficerie di Sant’Angelo e per l’accostamento alla sintassi degli ori santangelesi quale la figura isolata di un animale e i tre cordoni a metà corpo che indicano le costole. La goffa schematizzazione del grifo con un’eccessiva lunghezza del corpo e la sproporzione fra il tronco corpo e le zambe lo fanno attribuire a una stessa bottega di produzione ma a mani diverse. Nessun dubbio quindi che possa essere un’imitazione di sigillo, tenendo presente il pensiero dell’archeologo inglese Sinclair Hood, che ha condotto scavi a Micene e Creta, il quale rileva in “La civiltà di Creta” p. 162 “le difficoltà (d’interpretazione) sono aumentate da un gran numero di contraffazioni moderne di sigilli d’oro che riempiono musei e collezioni”.

 Sigillo di uomo con gonnellino,da Haghia Triada.(Nota la disarmonia del braccio).

 

 

 


Anello-sigillo d’oro massiccio.  Museo archeologico di Firenze-Gabinetto delle gemme.

Il luogo di fabbrica degli ori di Sant’Angelo sembra percorrere una strada a tre corsie. Una prima ipotesi si basa sugli aspetti esotici che richiamano una sopravvivenza di temi micenei nell’ambiente indigeno sicano, una seconda tenta di spiegare i collegamenti con il repertorio iconografico e tipologico orientale e, infine, una terza che esclude, per la forma, per lo stile e per la rigida e goffa schematizzazione delle figure, la derivazione occidentale e l’esportazione fra i “barbari” sicani, ipotizzando più che una derivazione siceliota una sicana.  

Appare ovvio che un regno potente e ricco come quello di Kokalos abbia avuto proprie oreficerie, accogliendo sia pure orafi e bronzisti di Gela o di Cannatello. Contribuì a ciò, si può ipotizzare, il fatto che I Rodii con i Cretesi fondarono, nel 689/688 a.C. Gela e che nel corso del VII secolo a.C., nuovi coloni fondarono Akagas intorno al 580 a. C. sicché la padronanza del territorio e l’abilità tecnica, supponiamo che portino i coloni alla formazione di botteghe artigianali locali ove elaborano un proprio stile con sensibili influssi greco-occidentali.

                                                                   

Le immagini e alcuni dati  sono stati volutamente oscurati per spingere alla pubblicazione del saggio di cui fanno parte.

Il saggio riporta la saga di Kokalos e Minosse avvenuta durante la cultura di Thapsos, come afferma S.Tusa a p. 316 di “La Sicilia nella Preistoria” Sellerio editore. 1999 Pa.

L’opera comprende:  Un’analisi delle tholoi, l’aldilà dei Sicani, Il culto deglii eroi sicani, Il culto della fecondità presso i Sicani, un  breve profilo storico dei popoli che furono a contatto con i Sicani.

 

 

 

Capitolo XVIII

Le pàtere d’oro di Sant’Angelo Muxaro e il culto della fecondità.

  1. a) Le pàtere (1) del piccolo museo vescovile di Agrigento.

 Il culto della fecondità si rileva anche nell’unica pàtera superstite, visibile nella stanza n° 73 (Greci in Italia) del British Museum.

 Recuperata per opera di scavatori clandestini a metà del ‘700 nelle tombe a grotticella artificiale, faceva parte di quattro pàtere che dovrebbero essere state dono reale. La datazione è posta dalla didascalia del museo intorno al VI secolo a.C., adducendo il dubbio che condividiamo, essendo da più fonti datata nel VII secolo a.C.

Le coppe furono acquistate dal vescovo dell’allora Girgenti monsignor Andrea Lucchesi Palli che si accingeva a costituire un piccolo museo presso la biblioteca vescovile. Nel 1767 le pàtere furono viste dal barone Von Riedesel in questo piccolo museo. Una di esse figurata fu menzionata in un articolo dal palermitano Giuseppe Lanza Branciforte principe di Trabia, ove riferisce che essa “ era stata acquistata, nel 1814, dal principe Luigi Ventimiglia, per 100 onze,(2) . la dote per quei tempi di una fanciulla della piccola

              Le due tazze auree: una liscia e una decorata, riprodotte da Houel.

(1)Pàtera – Dal Latino pàtera , in greco phiale- Coppa bassa e larga usata per le libagioni nei sacrifici agli dei. Il contenuto vino o latte era versato sulla testa delle vittime o sull’ara.   Il termine deriva dal Sancrito pàtram (greco potèr) con significato di vaso ,recipiente per bere. Gli etimologisti latini, ignari del Sanscrito, lo facevano derivare da pateo: essere aperto,indotti a ciò dalla forma aperta del vaso.

(2) Onza-siciliano-oncia It.- Antica unità di misura del sistema ponderale, monetario e di lunghezza siculo-italiota e romano. Dodicesima parte della libra e dell’asse. Il suo valore variava da città a città con base 26 grammi a Paleremo, Napoli etc. fino a 30 grammi a Bologna. Nel sistema monetario era equivalente a 30 tarì  grani 600, era pari a 26,647 grammi d’oro a 18 carati. In oreficeria era pari a gr. 3,60. Con l’unificazione d’Italia fu ragguagliata a 12,75 lire. Considerando che il valore della lira nel 1861 era di 5793 lire e che nel 1994 equivaleva a orientativamente a 73.900, oggi diremo che avrebbe un valore di 38000 euro, salvo il valore del mercato dell’antiquariato .

borghesia”come riferisce B. Pace. Pesava 52 once. Due di esse erano modellate a sbalzo con il martello, le altre due erano lisce, appaiate o meglio saldate.

Nel 1776, il pittore frencese J.Houel vide due di queste tazze, una liscia e l’altra decorata. Le riprodusse in una tavola che pubblicò a Parigi  nel suo “Voyage pittorescque des iles de Sicile etc.”  Dall’Houel apprendiamo che  poco prima un canonico legatario Monsignor Lucchesi Palli aveva disposte delle altre ‘in favore di un inglese’ (…)”.   

Di queste quattro coppe soltanto una esiste. Essa fu riconosciuta dall’archeologo siciliano Antonio Salinas che, visitando, nel 1908, il British Museum di Londra, poté ”riconoscere una delle tazze figurate del Lucchesi Palli fra i materiali pervenuti al museo, nel 1772, dalla collezione di sir William Hamilton, ambasciatore britannico alla corte di Napoli”. 

  1. b) La pàtera del British Museum di Londra.

 La coppa, custodita nel museo britannico di Londra, ha un diametro di 14,600 centimetri, un’altezza di due e un peso 187 gr.(1) Ha la grandezza di una sottotazza di caffè. L’orlo, inciso con brevi segmenti trasversali, ci riporta ai bordi dei panieri di vimini o delle ceste. Il reperto presenta sei buoi gradienti, disposti in serie sul bordo. Sembra che l’artista si sia servito di un modello ripetuto sei volte. Le figure, tratteggiate con contorni netti e ben marcati, creano masse volumetriche con forme nitide e ben delineate tali da farle apparire come se fossero state applicate. Le immagini stilizzate lasciano trasparire la struttura ossea, come le costole rese con quattro linee parallele e scemanti verso la groppa. Le corna, protese verso l’alto, sono leggermente inclinate verso il basso, non sono molto divaricate o arcuate a u come in alcune razze bovine. L’occhio è teso con un’orbita ogivale affondata che lascia montare il globo. La coppa porta, oltre la teoria di sei buoi, una mezza luna incisa con puntini distaccati, il centro è formato da un piccolo cerchio contrassegnato da un’orlatura. La conformazione piatta del centro, creata per la stabilità della  

                                                                                                                                                                                                                                                            

Pàtera del Britsh Museum di Londra, in esposizione temporanea per l’inaugurazione del MuSAM (Museo di Sant’Angelo Muxaro), anno 2015. (Appena visibile la mezzaluna). (FotoV.Conte)

1-Il peso è equivalnte al quello della tazza  acquistata dal principe Luigi Ventimiglia di cui si afferma essere  “nel complesso gr. 190 circa”. Da “Degli ori della reggia sicana di Camico”, p.102  di B.

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